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Samuel Beckett. Un uovo è un uovo. di Erminia Passannanti [gia'
pubblicato in Linea D'Ombra 1998] Trasferitosi a Parigi nel
1938 in epoca post-surrealista, Samuel Beckett
si imbatte
nella miriade di sottogruppi posteriori alle avanguardie storiche di
Jarry, Breton e Bataille. Ma a differenza dei surrealisti
della seconda
generazione,
non si rifugia nella creatività indotta dall’assunzione di
droghe e sostanze psichedeliche come avrebbero fatto gli scrittori della
beat generation
americana
degli anni Cinquanta, né si attribuisce pretese
d’estasi
per trasgredire
in direzione mistico-estetica politiche culturali
e sistemi di valori prodotti dell’obsolescenza della mentalità borghese.
Anche i suoi personaggi ignorano questi paradisi artificiali, essendo
capaci solo di genuina
follia.
Non è nemmeno la dimensione
indocile del
sogno a irrompere nel loro lessico, ma l’afasia
linguistica come esito di un male organico, Nelle poesie, nei romanzi e
nei testi drammaturgici, Beckett
ricorre a
un’espressività che è vicina alla pantomima. Infatti, ai suoi
personaggi
affida non solo
un dire monologante che rivela la profonda, reciproca idiosincrasia tra le
parole e le cose, ma una gestualità
clownesca che
esplora il mondo esterno come irriconciliabile alterità. L’assurdo
beckettiano assume un carattere metafisico allorquando, corrispondendo a
ciò che è indecifrabile, rimanda a un razionale non
giustificabile,
a una realtà che, da un punto di vista umano, appare
insensata, come
testimonia la trilogia narrativa composta
da
Molloy (1951), Malone Meurt (1951) e L’Innomable
(1953). In
particolare,
nella mescolanza sperimentale di parole, frasi e
espressioni
idiomatiche (francesi, inglesi, irlandesi o italiane) l’apparente
insensatezza di questi bizzarri soliloqui e dialoghi,
risultante da selezioni
del
tutto prive di ritegno, dove solo l’onomatopea sembra avere
senso, sottolinea come la condizione di
disgregante
solitudine in cui versa la vita di questi personaggi possa
produrre,
paradossalmente, una ricchezza di significati utili e
indispensabili
alle ragioni dell’arte, una prospettiva confermata dal
successo di
Waiting for Godot. Se nel primo ventennio del Novecento il rifiuto di Leonard e Virginia Woolf alla pubblicazione dell’Ulisse di Joyce con la Hogart Press appare oggi incredibile, allieta constatare che dopo qualche decennio soltanto esistessero a Parigi editori arditi abbastanza da pubblicare libri di altrettanto ardua diffusione quali si annunciavano all’epoca le opere di Beckett, lanciate tuttavia con grande intuizione sul mercato dalla casa editrice «Les Editions de Minuit». Ritrovatisi insieme nella capitale francese nel loro volontario esilio, i due eccentrici scrittori irlandesi, Joyce e Beckett, strinsero una forte amicizia destinata a durare nel tempo mentre sviluppavano studi concomitanti sugli automatismi del linguaggio volti entrambi all’invenzione di nuove forme letterarie e drammaturgiche. Durante questo stimolante periodo parigino, in linea con il progetto modernista, Beckett e Joyce realizzavano, dunque, opere dominate da una fondamentale disarmonia tra forma e contenuto, rifiutavando ogni funzione consolatoria dell’opere d’arte. Trasferitisi nella capitale più libertina e progressista d’Europa per fare esperienza di quella particolare atmosfera esistenzialista che aveva ispirato Camus e Sartre, questi inglesi erano riusciti a stabilire proficui rapporti anche con Beckett, e a ottenere sue poesie e saggi critici per il loro periodico. A Maurice Girodias, fondatore nel ’59 dell’Olympia Press, va il merito di essersi reso disponibile a pubblicare l’opera di autori stranieri che certamente non assecondavano né i gusti di un pubblico di massa né i dettami di un’editoria a caccia di best-sellers. Girodias diede il suo appoggio, inoltre, alla rivista «Merlin», gestita da un gruppo di giovani intellettuali inglesi espatriati, che avevano realizzato traduzioni di de Sade e Apollinaire. Girodias, che era venuto a conoscenza del fatto che Beckett, dopo il successo di En attendant Godot (1952) e di L’Innommable (1953), pubblicati entrambi da «Les Editions de Minuit», aveva giacente nel cassetto il manoscritto inedito di un romanzo in lingua inglese, dal titolo Watt, si offrì di pubblicare quel testorifiutato da diversi editori londinesi. La proposta piacque a Beckett, ma Watt - uscito nel 1953 nella collana «Merlin» dell’Olympia Press contemporaneamente a Plexus di Henry Miller - risentì di un’insoddisfacente veste editoriale e della presenza di molti penosi refusi di stampa, che afflissero l’autore e incrinarono i suoi rapporti con la rivista «Merlin». La priorità che Beckett
assegnò alla parola come “scarto” confuta la
necessità della
metafora, come aveva dichiarato di voler fare in pittura
Salvador
Dalí. L’automatismo di certi passi del romanzo Watt è volto infatti a mostrare
come i
meccanismi
psichici della libera associazione, negli stati di
semi-demenza o
di devianza mentale, si portino oltre l’ordine sintattico
del
pensiero logico e usino, come nella paranoia daliniana, «il mondo
esterno per
affermare ... la propria idea, avendo l’inquietante
peculiarità di
fare in modo che gli altri accolgano la verità di questa
idea.» (Dalí)
In tal senso, la lingua, come sistema di segni, più che
appartenere
all’ordine simbolico sancito dall’uso retorico che se ne fa
in una data
cultura, viene a designare piuttosto una devianza, che
sposta il
significato del
discorso da un ambito prettamente convenzionale a uno
individuale e inestricabile. In passi di farneticanti
disquisizioni, Watt passa matematicamente al
vaglio il reale
con cervellotiche e quanto mai sconclusionate
valutazioni
logico-numeriche: In tal senso, molte
relazioni e affinità esistono tra i romanzi Molloy, Malone meurt,
L’Innommable, Watt, e i loro protagonisti. Laproliferazione delle
allusioni intertestuali e gli interrogativi che
Beckett
continuamente pone sul processo creativo, al fine di
destabilizzare
sia il messaggio dell’emittente che il testo del
ricevente,
trovano un grado massimo di complicazione nell’uso della
narrazione in
prima persona. La consapevolezza che Beckett conferisce ai
suoi
protagonisti circa il loro ruolo di narratori costringe il
lettore
a focalizzare
l’attenzione sul processo stesso dello scrivere eripropone l’espediente
modernista della mise en abîme, di Gide e Joyce, contro l’ingenuità della
mimesis della letteratura ottocentesca, a
favore di una
meta-letteratura capace di riflettere con ironia sui
propri
contenuti e sulla propria estetica.
Nella prima
parte di Molloy, ad esempio, la difficoltà del protagonista
di narrare il
suo passato rende conto dell’inadeguatezza di ogni
tentativo
autobiografico. Nella seconda, nel resoconto che Jacques Moran
fa dell’anno
trascorso in cerca di Molloy, la certezza di riuscire a
conferire
logicità e consequenzialità alla narrazione si dissolve nella
progressiva
scoperta dei contenuti ingannevoli e fallaci della memoria:
«qualunque cosa
io dicessi, non era mai né abbastanza, né abbastanza
poco.»
Moran ammette,
così, la propria incapacità a garantire
un’accuratezza
e una continuità ai fatti: «evitavo sempre di
pensare
alla questione
Molloy. Sentivo una grande confusione invadermi.» Tale difficoltà viene
esacerbata sia dall’alienazione di cui il
narratore fa
esperienza rispetto alla propria passata identità, sia
dalla selezione
retrospettiva degli eventi, che inevitabilmente la mente
elabora, e da
cui trae origine una lunga sequenza di evoluzioni
possibili. Ne
consegue l’impossibilità per il narratore di rimanere
fedele a una
sola storia, o a un’unica versione di una data vicenda. Per
Beckett, l’atto
del ricordare implicherebbe infatti una distanza, vale a
dire
un’alienazione profonda del soggetto dal “se stesso” narrato. Nei romanzi di Beckett,
pertanto, mentre il protagonista lotta - in modo
spesso
grottesco - per attribuirsi l’identità di una persona vera, questa autenticità diviene
sempre più dubbia al lettore, rivelando i
suoi artifici.
Moran, uno dei personaggi della trilogia, tiene a
precisare che
ha mentito, che ha inventato tutto dall’inizio,
evidenziando l’estraneità dell’Io
presente all’Io passato, la profonda
inaffidabilità
del dire. Una volta dichiaratosi inattendibile, il suo resoconto non
ricostruisce verità o significati possibili, piuttosto
smantella
l’unità strutturale utopica stessa del romanzo, rivelando
anche - in Watt
come negli altri romanzi - il disagio dell’individuo nei
confronti
dell’autodefinizione e l’inconciliabilità tra l’esperienza di vita e la sua espressione.
Traduzione di Erminia
Passannanti (cosa farei senza questo
mondo...) cosa farei senza questo
mondo privo di sembianze non curioso di dove l’essere resista
tranne che nell’istante dove ciascun istante catapulta nel vuoto
l’ignoranza di essere vissuto privo di questa onda dove
alla fine il corpo sommerso è insieme
all’ombra cosa farei senza questo
silenzio dove muoiono i mormorii le pitture le frenesie verso
il soccorso verso l’amore senza questo cielo che
ascende al di sopra della sua
polvere-zavorra che farei senza ciò che ho
fatto ieri e ciò che ieri l’altro ho fatto sbucando fuori dalla mia
luce morta in cerca di un altro che come me s’aggira in un
moto a spirale via da ciò che vive in un convulso
spazio tra le voci prive di
voce che affollano il mio
nascondimento (da
Samuel Beckett, Collected Poems in English and French, 1977) Nel morto d’una notte Nel morto d’una
notte nella morta
immobilità sollevò lo
sguardo dal suo libro da
quell’oscurità fissando un'altra
oscurità finché lontano come fievole fiamma
s’indebolì il suo sguardo nella morta
immobilità finché lontano il suo libro come
per una mano non sua una mano non sua debolmente si
chiuse bene o male bene e male (Stuttgart. 26.6.77) |
Transference is an on-line poetry magazine
Titolo: PAINTED-HERBAL Autore: Giampiero NERI Collana: I tradotti di LIETOCOLLE costo: euro 10 ordina Se è vero che la poesia comunica emozioni universali, compito di un editore è favorirne la diffusione. La collana I tradotti nasce proprio con l’intento di far conoscere, oltre confine, la poesia italiana contemporanea. A distanza di quattro anni dall’uscita di Erbario con figure di Giampiero Neri, l’editore pubblica oggi la versione in inglese, curata da Luisella Magnani , quale omaggio al poeta e a un maestro di vita, che sa vivere fino in fondo ogni esperienza e traslarla in poetico con quella pacatezza e solidità che appartengono ad una grande anima.
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