Samuel Beckett

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Samuel Beckett. Un uovo è un uovo.

 [Due poesie]

di Erminia Passannanti

[gia' pubblicato in Linea D'Ombra 1998]

Trasferitosi a Parigi nel 1938 in epoca post-surrealista, Samuel Beckett si imbatte nella miriade di sottogruppi posteriori alle avanguardie storiche di Jarry, Breton e Bataille. Ma a differenza dei surrealisti della seconda generazione, non si rifugia nella creatività indotta dall’assunzione di droghe e sostanze psichedeliche come avrebbero fatto gli scrittori della beat generation americana degli anni Cinquanta, né si attribuisce pretese d’estasi per trasgredire in direzione mistico-estetica politiche culturali e sistemi di valori prodotti dell’obsolescenza della mentalità borghese. Anche i suoi personaggi ignorano questi paradisi artificiali, essendo capaci solo di genuina follia.

Non è nemmeno la dimensione indocile del sogno a irrompere nel loro lessico, ma l’afasia linguistica come esito di un male organico, un tarlo che devia la logica del parlato, affidando a campi semantici disparati e apparentemente sconclusionati il significato degli enunciati. Non un’estetica dell’indecifrabilità onirica, dunque, né l’intenzione di un linguaggio momentaneamente alterato: piuttosto, un progetto che impone al reale i codici di una coscienza definitivamente lesa, eppure, a suo modo, ancora curiosamente vigile. In tal senso, la definizione di teatro dell’ “assurdo”, coniata dal critico Esslin, con cui oggi si classificano le opere di Ionesco, Beckett o Adamov, bene illustra l’inclusione beckettiana nel tessuto tematico delle proprie scritture delle filosofie esistenzialiste di Sartre e Camus. Queste opere che spesso hanno un visibile carattere parodico condividono temi quali la beffa e l’angoscia del vivere. Così, nel mondo di Beckett, un “uovo”, pur nella trasgressività dell’uso che se ne può fare, finirà per costituire un mistero proprio nel suo essere semplicemente un “uovo”, un semplice uovo da frittata, bizzarramente denominato “egg”,  come si legge nella poesia Whorescope, dove l’uovo e insieme nucleo e pretesto per una disquisizione che trascenda il linguaggio: «Come riccamente profuma/ quest’aborto di gallinella!/ Ne mangerò con il coltello da pesce./ Bianco, giallo e piume.» L’assurdo è, dunque, l’incapacità di conferire unità e senso alla realtà esterna tramite un pensiero conciliatorio? O la tendenza a ritenere il vuoto e il nulla, derivanti da tale inconciliabilità, delle verità possibili? Assurda, infine, appare la strenua e coraggiosa resistenza che i personaggi beckettiani, teneri e patetici, ingaggiano per affermare un qualche residuo valore colto nell’esistere. 

Nelle poesie, nei romanzi e nei testi drammaturgici, Beckett ricorre a un’espressività che è vicina alla pantomima. Infatti, ai suoi personaggi affida non solo un dire monologante che rivela la profonda, reciproca idiosincrasia tra le parole e le cose, ma una gestualità clownesca che esplora il mondo esterno come irriconciliabile alterità. L’assurdo beckettiano assume un carattere metafisico allorquando, corrispondendo a ciò che è indecifrabile, rimanda a un razionale non giustificabile, a una realtà che, da un punto di vista umano, appare insensata, come testimonia la trilogia narrativa composta da Molloy (1951), Malone Meurt (1951) e L’Innomable (1953). In particolare, nella mescolanza sperimentale di parole, frasi e espressioni idiomatiche (francesi, inglesi, irlandesi o italiane) l’apparente insensatezza di questi bizzarri soliloqui e dialoghi,  risultante da selezioni del tutto prive di ritegno, dove solo l’onomatopea sembra avere senso, sottolinea come la condizione di disgregante solitudine in cui versa la vita di questi personaggi possa produrre, paradossalmente, una ricchezza di significati utili e indispensabili alle ragioni dell’arte, una prospettiva confermata dal successo di Waiting for Godot.

Se nel primo ventennio del Novecento il rifiuto di Leonard e Virginia Woolf alla pubblicazione dell’Ulisse di Joyce con la Hogart Press appare oggi incredibile, allieta  constatare che dopo qualche decennio soltanto  esistessero a Parigi editori arditi abbastanza da pubblicare libri di altrettanto ardua diffusione quali si annunciavano all’epoca le opere di Beckett, lanciate tuttavia  con grande intuizione sul mercato dalla casa editrice «Les Editions de Minuit». Ritrovatisi insieme nella capitale francese nel loro volontario esilio, i due eccentrici scrittori irlandesi, Joyce e Beckett, strinsero una forte amicizia destinata a durare nel tempo mentre sviluppavano studi concomitanti sugli automatismi del linguaggio volti entrambi all’invenzione di nuove forme letterarie e drammaturgiche. Durante questo stimolante periodo parigino, in linea con il progetto modernista, Beckett e Joyce realizzavano, dunque, opere dominate da una fondamentale disarmonia tra forma e contenuto, rifiutavando ogni funzione consolatoria dell’opere d’arte. Trasferitisi nella capitale più libertina e progressista d’Europa per fare esperienza di quella particolare atmosfera esistenzialista che aveva ispirato Camus e Sartre, questi inglesi erano riusciti a stabilire proficui rapporti anche con Beckett, e a ottenere sue poesie e saggi critici per il loro periodico. A Maurice Girodias, fondatore nel ’59 dell’Olympia Press, va il merito di essersi reso disponibile a pubblicare l’opera di autori stranieri che certamente non assecondavano né i gusti di un pubblico di massa né i dettami di un’editoria a caccia di best-sellers. Girodias diede il suo appoggio, inoltre, alla rivista «Merlin», gestita da un gruppo di giovani intellettuali inglesi espatriati, che avevano realizzato traduzioni di de Sade e Apollinaire. Girodias, che era venuto a conoscenza del fatto che Beckett, dopo il successo di En attendant Godot (1952) e di L’Innommable (1953), pubblicati entrambi da «Les Editions de Minuit», aveva giacente nel cassetto il manoscritto inedito di un romanzo in lingua inglese, dal titolo Watt, si offrì di pubblicare quel testorifiutato da diversi editori londinesi. La proposta piacque a Beckett, ma Watt - uscito nel 1953 nella collana «Merlin» dell’Olympia Press contemporaneamente a Plexus di Henry Miller - risentì di un’insoddisfacente veste editoriale e della presenza di molti penosi refusi di stampa, che afflissero l’autore e incrinarono i suoi rapporti con la rivista «Merlin».

   La priorità che Beckett assegnò alla parola come “scarto” confuta la necessità della metafora, come aveva dichiarato di voler fare in pittura Salvador Dalí. L’automatismo di certi passi del romanzo Watt è volto infatti a mostrare come i meccanismi psichici della libera associazione, negli stati di semi-demenza o di devianza mentale, si portino oltre l’ordine sintattico del pensiero logico e usino, come nella paranoia daliniana, «il mondo esterno per affermare ... la propria idea, avendo l’inquietante peculiarità di fare in modo che gli altri accolgano la verità di questa idea.» (Dalí) In tal senso, la lingua, come sistema di segni, più che appartenere all’ordine simbolico sancito dall’uso retorico che se ne fa in una data cultura, viene a designare piuttosto una devianza, che sposta il significato del discorso da un ambito prettamente convenzionale a uno individuale e inestricabile. Nella trama di Watt, il fatto che l’omonimo protagonista sia rimasto confuso dalla sua visita a casa di Mr Knott (dove si era recato per restarvi brevemente) si palesa in una curiosa e quanto mai paradossale conversazione che il protagonista ingaggia con un suo compagno di sventura, Sam, anch’egli ricoverato nello stesso reparto psichiatrico. Affetto da una tara del linguaggio che gli inibisce la piena e soddisfacente comunicazione del suo pensiero, Watt trova in Sam l’interprete dei contenuti dei suoi messaggi - messaggi che spesso deviano in deliri matematici, lacune semantiche, grotte filosofiche,  enigmi ontologici ed epistemologici. Tentando di dare espressione alla sostanziale inenarrabilità della sua infausta avventura a casa di Mr Knott, Watt trova una giustificazione alla propria inettitudine verbale: «giacché l’unica maniera in cui si può parlare di niente è parlarne come se fosse qualcosa, proprio come l’unica maniera per parlare di Dio è parlarne come se fosse un uomo, ché certamente lo era, in qualche senso, e così l’unica maniera in cui si può parlare dell’uomo, perfino i nostri antropologi lo hanno capito, è parlarne come se fosse una termite».

In passi di farneticanti disquisizioni, Watt passa matematicamente al vaglio il reale con cervellotiche e quanto mai sconclusionate valutazioni logico-numeriche: «ma quando cinque uomini si guardano l’un l’altro, sebbene siano sufficienti solo venti sguardi, se si considera che ogni uomo guarda quattro volte, questo numero risulta a stento sufficiente, rispetto alla moltitudine di sguardi che vanno sprecati». Ne consegue che, in pagine e pagine di folli ragionamenti, in cui si percepisce l’interferenza di un narratore-autore onnipresente, e tuttavia impotente a ordinare il caos, non viene fornita alcuna soluzione plausibile a questi problemi, apparentemente futili, di modo che il testo ne acquisisce ulteriore ambiguità. Si tratta di una strategia che Beckett aveva anticipato nel romanzo Molloy, in cui il protagonista rischia di apparire come un  demente incapace di attribuire significato a cose, a parole, perfino a se stesso: «fumo, bastoni, carne, capelli, la sera, di lontano, attorno al desiderio di un fuoco. A questi stracci so dar vita per coprire la mia vergogna. Mi domando cosa significhi».

In tal senso, molte relazioni e affinità esistono tra i romanzi Molloy, Malone meurt, L’Innommable, Watt, e i loro protagonisti. Laproliferazione delle allusioni intertestuali e gli interrogativi che Beckett continuamente pone sul processo creativo, al fine di destabilizzare sia il messaggio dell’emittente che il testo  del ricevente, trovano un grado massimo di complicazione nell’uso della narrazione in prima persona. La consapevolezza che Beckett conferisce ai suoi protagonisti circa il loro ruolo di narratori costringe il lettore a focalizzare l’attenzione sul processo stesso dello scrivere eripropone l’espediente modernista della mise en abîme, di Gide e Joyce, contro l’ingenuità della mimesis della letteratura ottocentesca, a favore di una meta-letteratura capace di riflettere con ironia sui propri contenuti e sulla propria estetica. Nella prima parte di Molloy, ad esempio, la difficoltà del protagonista di narrare il suo passato rende conto dell’inadeguatezza di ogni tentativo autobiografico. Nella seconda, nel resoconto che Jacques Moran fa dell’anno trascorso in cerca di Molloy, la certezza di riuscire a conferire logicità e consequenzialità alla narrazione si dissolve nella progressiva scoperta dei contenuti ingannevoli e fallaci della memoria: «qualunque cosa io dicessi, non era mai né abbastanza, né abbastanza poco.» Moran ammette, così, la propria incapacità a garantire un’accuratezza e una continuità ai fatti: «evitavo sempre di pensare alla questione Molloy. Sentivo una grande confusione invadermi.» Tale difficoltà viene esacerbata sia dall’alienazione di cui il narratore fa esperienza rispetto alla propria passata identità, sia dalla selezione retrospettiva degli eventi, che inevitabilmente la mente elabora, e da cui trae origine una lunga sequenza di evoluzioni possibili. Ne consegue l’impossibilità per il narratore di rimanere fedele a una sola storia, o a un’unica versione di una data vicenda. Per Beckett, l’atto del ricordare implicherebbe infatti una distanza, vale a dire un’alienazione profonda del soggetto dal “se stesso” narrato.

Nei romanzi di Beckett, pertanto, mentre il protagonista lotta - in modo spesso grottesco - per attribuirsi l’identità di una persona vera, questa autenticità diviene sempre più dubbia al lettore, rivelando i suoi artifici. Moran, uno dei personaggi della trilogia, tiene a precisare che ha mentito, che ha inventato tutto dall’inizio,  evidenziando l’estraneità dell’Io presente all’Io passato, la profonda inaffidabilità del dire. Una volta dichiaratosi inattendibile, il suo resoconto non ricostruisce verità o significati possibili, piuttosto smantella l’unità strutturale utopica stessa del romanzo, rivelando anche - in Watt come negli altri romanzi - il disagio dell’individuo nei confronti dell’autodefinizione e l’inconciliabilità tra l’esperienza di vita e la sua espressione.

 Due poesie

Traduzione di Erminia Passannanti

 

(cosa farei senza questo mondo...)

 

cosa farei senza questo mondo privo di sembianze non curioso

di dove l’essere resista tranne che nell’istante dove ciascun istante

catapulta nel vuoto l’ignoranza di essere vissuto

privo di questa onda dove alla fine

il corpo sommerso è insieme all’ombra

cosa farei senza questo silenzio dove muoiono i mormorii

le pitture le frenesie verso il soccorso verso l’amore

senza questo cielo che ascende

al di sopra della sua polvere-zavorra

 

che farei senza ciò che ho fatto ieri e ciò che ieri l’altro ho fatto

sbucando fuori dalla mia luce morta in cerca di un altro

che come me s’aggira in un moto a spirale via da ciò che vive

in un convulso spazio

tra le voci prive di voce

che affollano il mio nascondimento

 

(da Samuel Beckett, Collected Poems in English and French, 1977)

 

 

Nel morto d’una notte

 

Nel morto d’una notte

nella morta immobilità

sollevò lo sguardo

dal suo libro

 

da quell’oscurità

fissando un'altra oscurità

 

finché lontano

come fievole fiamma s’indebolì

il suo sguardo

 

nella morta immobilità

 

finché lontano

il suo libro come per

una mano non sua

una mano non sua

debolmente si chiuse

 

bene o male

bene e male

(Stuttgart. 26.6.77)

 

 

 

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Autore: Giampiero NERI

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