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I Come and Stand at Every Door

Pete Seeger
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Lingua: Inglese

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Where Have all the Flowers Gone
(Pete Seeger)
Đurđevdan / Ђурђевдан
(anonimo)
The Little Dead Girl
(Paul Robeson)

Hiroshima woman
Hiroshima e Nagasaki 広島市 - 長崎市
primitiva
Le CCG Primitive

[1962]
Da una poesia di Nâzım Hikmet
traduzione inglese di Jeannette Turner
Musica di James Waters (1954)
(adattata alla ballata tradizionale delle Isole Orcadi The Great Silkie Of Sule Skerrie (Child #113)

From a poem by Nâzım Hikmet
English translation by Jeannette Turner
Music by James Waters (1954)
(fitted to the Orkney folk ballad The Great Silkie Of Sule Skerrie (Child #113)


Hiroshima: L'originale dattiloscritto della poesia Kız Çocuğu di Nâzim Hikmet assieme alla lettera di ringraziamento al poeta scritta da alcuni bambini giapponesi.
Hiroshima: L'originale dattiloscritto della poesia Kız Çocuğu di Nâzim Hikmet assieme alla lettera di ringraziamento al poeta scritta da alcuni bambini giapponesi.

Questa straordinaria poesia di Hikmet ebbe il genio di metterla in musica (non a caso!) Pete Seeger, nel 1962; la versione più conosciuta è quella registrata quattro anni dopo dai Byrds di Roger McGuinn nell'album "5th Dimension"... non credo mi metta i brividi solo perché penso a cinque anni fa nelle Marche, a Joyce Lussu, a persone care e perdute; credo che abbia una forza e una bellezza da sciogliere trent'anni di banchisa...
(Alex Agus dalla mailing list "Fabrizio")

This extraordinary poem by Nâzım Hikmet was put into a song by Pete Seeger in 1962; the best known version is the one recorded four years later by The Byrds in the LP "5th dimension".

Pete Seeger.
Pete Seeger.
The Byrds.
The Byrds.




Si veda anche The Little Dead Girl di Paul Robeson
See also Paul Robeson's The Little Dead Girl

I come and stand at every door
But no one hears my silent tread
I knock and yet remain unseen
For I am dead, for I am dead.

I'm only seven although I died
In Hiroshima long ago
I'm seven now as I was then
When children die they do not grow.

My hair was scorched by swirling flame
My eyes grew dim, my eyes grew blind
Death came and turned my bones to dust
And that was scattered by the wind.

I need no fruit, I need no rice
I need no sweet, nor even bread
I ask for nothing for myself
For I am dead, for I am dead.

All that I ask is that for peace
You fight today, you fight today
So that the children of this world
May live and grow and laugh and play.


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Lingua: Italiano

Versione italiana di Alex Agus
Italian Version by Alex Agus

Madre e figlia a Hiroshima, 1945. Mother and child in Hiroshima, 1945.
Madre e figlia a Hiroshima, 1945. Mother and child in Hiroshima, 1945.

VADO E MI FERMO DI PORTA IN PORTA

Vado e mi fermo di porta in porta
ma nessuno sente il mio passo silenzioso
busso, ma anche così nessuno mi vede
perché sono morta, perché sono morta

Ho solo sette anni, benché sia morta
ad Hiroshima tanti anni fa
ho sette anni ora come allora
i bambini che muoiono non diventano grandi

I miei capelli li ha bruciati la fiamma turbinante
i miei occhi si sono offuscati, i miei occhi non vedono più
la Morte è arrivata a sbriciolare in cenere
le mie ossa ed il Vento le ha sparse

Non ho bisogno di frutta, non ho bisogno di riso
non ho bisogno di dolci e neppure di pane
non chiedo niente per me
perché sono morta, perché sono morta

Tutto ciò che vi chiedo è che voi oggi,
che voi oggi combattiate per la Pace
perché i bambini di questo mondo
possano vivere e crescere e ridere e giocare.


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Lingua: Italiano

Adattamento italiano di AQF (Angelo “Quixote")

Non proprio una traduzione, anche se relativamente fedele, ma piuttosto una versione italiana, composta originariamente per essere suonata e cantata, sulle note della versione dei Byrds. Questo l'unico pregio che il traduttore - cui non risultavano altre versioni italiane in musica - si sente di attribuire alla sua modesta rivisitazione del malinconico e sommesso "dolcetto scherzetto" che la piccola ombra recita alla porta della nostra apatia

(© 2001 by AQF - Testo liberamente copiabile, usabile, eseguibile).

IO VENGO E ASPETTO ALLA TUA PORTA

Io vengo e vado ad ogni porta,
ma tu non senti il lieve passo:
io busso e ancora tu non vedi,
perché non sono, non sono più.

Sette anni avevo, era d'agosto,
in Hiroshìma mille anni fa:
sette ne ho ancora, come allora:
se un bimbo muore, non cresce più.

La fiamma accesa sui capelli,
un velo nero nei miei occhi,
poi fu la notte e le mie ossa
cenere grigia alta nel vento.

Non darmi frutta, non darmi riso;
non voglio dolci, nemmeno pane:
non chiedo nulla per me stesso,
perché non sono, non sono più.

Quello che chiedo è per la pace:
che tu combatta, che tu ti batta,
perché ogni bimbo, in questo mondo
rida alla vita e cresca e giochi.

inviata da AQF (Angelo “Quixote") - 26/11/2008 - 21:49


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Lingua: Catalano

Versione catalana di Ramón Casajoana
Catalan Version by Ramón Casajoana

EL NEN D'HIROSHIMA
(I come and stand at every door)

Per tot arreu us vaig cridant,
però ningú no em pot sentir,
i quan us parlo no em veieu,
perquè sóc mort, perquè sóc mort.

Tenia set anys quan vaig morir
a Hiroshima, fa molt temps.
Encara tinc aquells set anys,
quan els nens moren no creixen més.

Tot el meu cos es va cremar,
amb els ulls cecs em vaig desfer,
tots els meus ossos es van fer pols;
després, el vent s'ho va emportar.

Dolços no en vull, no em cal el pa,
no vull arròs, fruites tampoc,
jo no demano res per mi
perquè sóc mort, perquè sóc mort.

El que us demano és que ara lluiteu,
però per la pau, però per la pau,
per tal que els nens de tot el món
puguin créixer, viure i jugar.


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Lingua: Spagnolo

Versione spagnola di Gustavo Sierra da La Zamarra de Gustavo

VENGO Y ME QUEDO EN CADA PUERTA

Vengo y me quedo en cada puerta,
pero nadie oye mi paso silencioso.
Llamo y todavía permanezco sin ser vista
porque estoy muerta, porque estoy muerta.

Tengo sólo siete años aunque morí
en Hiroshima hace tiempo,
tengo siete años ahora como entonces,
cuando los niños mueren no crecen.

Mi cabello se quemó por un remolino de fuego,
mis ojos se volvieron sombríos, mis ojos se cegaron,
la muerte vino y convirtió mis huesos en polvo
y fueron dispersados por el viento.

No necesito fruta, no necesito arroz,
no necesito dulces, ni siquiera pan;
no pido nada para mí,
porque estoy muerta, porque estoy muerta.

Todo lo que pido es aquello para la paz.
Luchad hoy, luchad hoy
para que los niños de este mundo
puedan vivir crecer y reír y jugar.

10/8/2011 - 22:32


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Lingua: Turco

Nâzim Hikmet: KİZ ÇOCUĞU

[1955]

L'originale turco di Nâzım Hikmet da cui è stata tratta la canzone di Pete Seeger.
La poesia è stata musicata e interpretata dall'artista turco Zülfü Livaneli nel 1978, in un album dedicato interamente a Nâzim Hikmet (intitolato "Nâzim Türküsü).

The original Turkish poem by Nâzım Hikmet which inspired Pete Seeger's song.
The poem was set to music and performed by the Turkish folksinger Zülfü Livaneli in 1978, in an album entirely dedicated to Nâzim Hikmet, "Nâzim Türküsü".



La poesia di Nâzim Hikmet musicata da Zülfü Livaneli è qui interpretata da Joan Baez.

Nâzım Hikmet.
Nâzım Hikmet.
Nâzım Hikmet nacque a Salonicco nel 1902, da Hikmet Nâzım bey, capo dell'ufficio stampa del governo Giovane-Turco di Talat bey, e di Ayşe Celile Hanım, pittrice, coltissima e, a quanto si dice, la più bella donna della Turchia di allora. Il nonno paterno, Nâzım paşa , fu governatore di varie province, ma anche scrittore e poeta in lingua ottomana, vale a dire in una lingua, come scrive Hikmet stesso, in cui la maggior parte delle parole erano arabe o persiane. Il nonno materno , figlio di un nobile polacco, era militare di carriera, ma anche filologo e storico.Nell'insieme un clima molto favorevole, se non addirittura ideale, alla nascita di un poeta.
Dopo il liceo a Istanbul, Hikmet passò all'Accademia di marina, e già scriveva poesie. Pubblicò per la prima volta a diciassette anni in una rivista. A diciotto anni Nâzım lasciò l'Accademia e scappò in Anatolia, dove si svolgeva la guerra di liberazione guidata dal nazionalista Mustafa Kemal, e fece il maestro di scuola.
Nel 1921, appena diciannovenne, abbandonò il partito kemalista. Aveva scoperto i testi di Marx e la rivoluzione sovietica, e decise di emigrare: andò a Mosca e si iscrisse all'Università comunista dei lavoratori d'Oriente.
Incontrò Lenin, conobbe Esenin e Majakovskij ( che ebbe su di lui un influsso importante). Frequenta l’università a Mosca, attratto dalla Rivoluzione Russa e dalle sue promesse di giustizia sociale ove rimase per sette anni, tornando in patria solo per un periodo tra il 1924 e il 1925, quando organizzò una tipografia a Smirne; viene quindi arrestato, colpevole di collaborare con una rivista di sinistra. Costretto a rifugiarsi a Mosca, solo nel 1928 Hikmet rientrò di nuovo, clandestinamente, in Turchia. Intanto cominciavano ad uscire numerosi i suoi libri. La sua posizione politica, però, non piaceva affatto al governo, anticomunista, tanto che nel 1938, dopo varie altre condanne e detenzioni ( con accuse di propaganda comunista e di complotto contro il governo), venne processato e condannato a 28 anni di carcere. Ne scontò 12 (in una prigione dell'Anatolia), nel corso dei quali fu colpito nel 1943 da un primo infarto.
È Pablo Neruda a raccontare come l’amico Hikmet viene trattato durante la sua prigionia: “…Accusato di aver tentato di incitare l’esercito turco alla ribellione, Nâzım è stato condannato alle punizioni più terribili. Mi ha detto che è stato costretto a camminare sul ponte di una nave fino a non sentirsi troppo debole per rimanere in piedi, quindi lo hanno legato in una latrina dove gli escrementi arrivavano a mezzo metro sopra il pavimento… Il mio fratello poeta ha sentito le sue forze mancare: i miei aguzzini vogliono vedermi soffrire. Resiste con orgoglio. Comincia a cantare, all’inizio la sua voce è bassa, poi sempre più alta fino ad urlare. Ha cantato tutte le canzoni, tutti i poemi d’amore che riesce a ricordare, i suoi stessi versi, le ballate d’amore dei contadini, gli inni di battaglia della gente comune. Ha cantato qualsiasi cosa che la sua mente ricordasse. E così ha vinto i suoi torturatori.”
Nel 1949, a Parigi, una commissione internazionale della quale fanno parte, tra gli altri, Pablo Picasso, Paul Robeson e Jean Paul Sartre, si batte per la liberazione di Hikmet.
Esce di carcere nel 1950, con l'aura di martire e d'intellettuale di spicco nell'ambito della cultura comunista internazionale. A favorire la scarcerazione fu Tristan Tzara. a capo di un gruppo di artisti e intellettuali. Rimase per qualche mese ad Istanbul, strettamente controllato dalla polizia.
Ben presto la sua persecuzione ricomincia più spietata che mai. Simone de Beauvoir ricorda gli eventi di quei giorni “Mi raccontò come nell’anno successivo alla sua liberazione subì due attentati, con le macchine, nelle vie di Istanbul. In seguito provarono a costringerlo a fare il servizio militare alla frontiera russa: aveva quasi cinquant’anni.
Fu costretto ad espatriare a Mosca. Il governo turco nega il permesso alla moglie ed al figlio di seguirlo. Durante il suo esilio ha il secondo attacco di cuore. Nonostante le sue condizioni di salute continua a lavorare duramente, visitando non solo l’Europa dell’Est ma Roma, Parigi, L’Avana, Pechino. Privato della cittadinanza turca nel 1959 sceglie di diventare cittadino polacco. Nello stesso anno si sposa per la terza volta. Nel 1961 compie un viaggio a Cuba; viene più volte anche in Italia. Il 3 giugno 1963 muore a Mosca colpito da un infarto.
È nel 2002, in occasione del centenario della sua nascita, che il governo turco restituirà al grande poeta Nâzım Hikmet (scomparso nel '63) la cittadinanza che gli era stata ritirata nel 1951, un anno dopo la sua scelta di trasferirsi in Unione Sovietica, in esilio, e dopo la condanna a 28 anni di carcere inflittagli dal presidente Kemal Atatürk.
L'iniziativa del governo fa seguito alla petizione di oltre mezzo milione di cittadini.
Nâzım Hikmet è uno dei più grandi poeti del ventesimo secolo. le sue opere sono state tradotte in più di cinquanta lingue.

KİZ ÇOCUĞU

Kapıları calan benim
kapıları birer birer.
Gözünüze görünemem
göze görünmez oluler.

Hiroşima'da olelim
oluyor bir on yıl kadar.
Yedi yaşında bir kizim,
buyumez olu çocuklar.

Saçlarım tütüştü once,
gözlerim yandı kavruldu.
Bir avuç kul oluverdim,
külüm havaya savruldu.

Benim sizden kendim için
hiçbir şey istediğim yok.
Seker bile yiyemez ki
kağıt gibi yanan çocuk.

Calıyorum kapınizı
teyze, amca, bir imza ver.
Coçuklar oldurulmesin
seker de yiyebilsinler.


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Lingua: Giapponese

La versione giapponese della poesia di Nâzim Hikmet
Japanese version of Nâzim Hikmet's poem
Da/from Questa pagina/This page

原詩

家々の戸を叩くのは私
私は見えない
死者は見えない

私が広島で死んで略十年
私は7歳
死んだ子は歳をとらない

まづ髪に火がつき
目が焼けた
私は一握りの灰になり
風に散った

私はなにも欲しくない
紙のように燃えた子供は
お菓子さえ食べれない

私は戸を叩く
おじさんおばさん
署名してください
子供たちが殺されないで
お菓子を食べれるように

inviata da Riccardo Venturi - 14/1/2009 - 04:56


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Lingua: Inglese

English translation by Howard Fast of the poem by Nazim Hikmet
Versione inglese di Howard Fast della poesia di Nazim Hikmet

Howard Fast.
Howard Fast.



The first English version of the song I found was in Masses and Mainstream, monthly, New York, June 1955. It printed three songs of Nazim Hikmet, under the title "Poems for Peace," with the following note:

"These three songs of peace were written for the World Assembly of Peace by the famous Turkish poet, Nazim Hikmet. They were set to music by Czech composers, and the music as well as literal translations of the Turkish original was sent to Paul Robeson and Howard Fast in New York.

"What follows are the texts which Howard Fast wrote to the Czech music, basing himself as nearly as possible within the musical framework upon Nazim Hikmet's original version. They will be recorded by Paul Robeson, whose voice will be heard in Helsinki by the men women of the world assembly."


The World Peace Council was at that time trying to get hundreds of millions of signatures for an "appeal for peace." That why the reference to the "scroll" towards the end.

I do not know how the song was redone since then. Nazim Hikmet himself might have revised the song and there might have been a new translation.

THE LITTLE DEAD GIRL

A little girl is at your door,
At every door, at every door,
A little girl you cannot see
Is at your door, is at your door

And for me, there will never be
The love and laughter you have known.
At Hiroshima, do you see,
My flesh was seared from every bone.

My hair was first to feel the flame,
Hot were my eyes and hot my hands,
Only a little ash remained,
Where I had played upon the sands.

Stranger, what can you do for me,
A little ash, a little girl?
A human child like paper burned,
An ash for the cooling wind to swirl.

A little dead child, burned by strife,
Oh, stranger please do this for me,
Your name on the scroll, peace and life,
And peace and life for all like me.

12/6/2005 - 18:40


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Lingua: Italiano

Versione italiana della poesia di Nâzim Hikmet
Dall'Antologia dell'Istituto Comprensivo "C.Gouthier.

LA BAMBINA DI HIROSHIMA
Nazim Hikmet

Apritemi sono io…
busso alla porta di tutte le scale
ma nessuno mi vede
perché i bambini morti nessuno riesce a vederli.

Sono di Hiroshima e là sono morta
tanti anni fa. Tanti anni passeranno.
Ne avevo sette, allora: anche adesso ne ho sette
perché i bambini morti non diventano grandi.

Avevo dei lucidi capelli, il fuoco li ha strinati,
avevo dei begli occhi limpidi, il fuoco li ha fatti di vetro.
Un pugno di cenere, quella sono io
poi anche il vento ha disperso la cenere.

Apritemi; vi prego non per me
perché a me non occorre né il pane né il riso:
non chiedo neanche lo zucchero, io:
a un bambino bruciato come una foglia secca non serve.

Per piacere mettete una firma,
per favore, uomini di tutta la terra
firmate, vi prego, perché il fuoco non bruci i bambini
e possano sempre mangiare lo zucchero.

12/6/2005 - 18:46


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Lingua: Francese

Versione francese della poesia di Nâzim Hikmet
Version française du poème de Nâzim Hikmet
Da/d'après Questa pagina/Cette page

C'EST MOI QUI FRAPPE AUX PORTES
(La petite fille d'Hiroshima)

C'est moi qui frappe aux portes,
aux portes, l'une après l'autre.
Je suis invisible à vos yeux.
Les morts sont invisibles.

Morte à Hiroshima
il y a bien longtemps,
je suis une petite fille de sept ans.
Les enfants morts ne grandissent pas.

Mes cheveux d'abord ont pris feu,
mes yeux ont brûlé, se sont calcinés.
Soudain je fus réduite en une poignée de cendres,
mes cendres se sont éparpillées au vent.

Pour ce qui est de moi,
je ne vous demande rien:
il ne saurait manger, même des bonbons,
l'enfant qui comme du papier a brûlé.

Je frappe à votre porte, oncle, tante:
une signature. Que l'on ne tue pas les enfants
et qu'ils puissent aussi manger des bonbons.

inviata da Riccardo Venturi - 4/1/2006 - 00:14


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Lingua: Tedesco

Versione tedesca della poesia di Nâzim Hikmet
Deutsche Fassung des Gedichtes von Nâzim Hikmet
German Version of Nâzim Hikmet's poem
Da/aus/from Questa pagina/vorliegender Seite/this page

DAS KLEINE TOTE MÄDCHEN VON HIROSHIMA

Ich, ich klopfte an eure Tür,
an jede, eine nach der andern.
Ihr könnt mich nicht sehen.
Tote sind unsichtbar.

Seit ich in Hiroshima starb,
ist es zehn Jahre her.
Ich bin ein Mädchen von sieben Jahr,
tote Kinder wachsen nicht mehr.

Zuerst fing Feuer mein Haar,
dann sind mir die Augen verbrannt,
bis ich zu einer Handvoll Asche wurde,,
die durch die Luft wirbelte.

Für mich verlange ich
nichts von euch, nichts.
Ein Kind, das wie Papier brannte,
kann nicht einmal mehr Bonbons essen.

Ich klopfe an eure Tür,
Tante, Onkel, eine Unterschrift nur.
Damit Kinder nicht mehr getötet werde
und auch Bonbons essen können.

inviata da Riccardo Venturi - 4/1/2006 - 00:45


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Lingua: Spagnolo

Versione spagnola della poesia di Nâzim Hikmet
Versión castellana del poema de Nâzim Hikmet
Spanish Version of Nâzim Hikmet's poem
Da/de/from Questa pagina/esta página/this page

LA NIÑA MUERTA

Soy yo quien golpea a tu puerta
A todas las puertas, a todos las puertas
Pero ustedes no pueden contemplarme
Es imposible ver a un niño muerto

Hace diez años largos
he muerto en Hiroshima
Pero sigo teniendo siete años
Los niños muertos dejan de crecer

Al principio se inflamaron mis cabellos
Mis manos y mis ojos ardieron después
Me convertí en un puñado de cenizas
Que el viento dispersó

Nada, nada les pido para mí
No podrían mimarme aunque quisieran
Una niña que ha ardido como si fuera papel
no come caramelos

Yo golpeo y golpeo a cada puerta:
Denme, denme una firma
Para que los niños no sean asesinados
y coman caramelos.

inviata da Riccardo Venturi - 4/1/2006 - 00:50


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Lingua: Neerlandese

Versione neerlandese (olandese/fiamminga) della poesia di Nâzim Hikmet, di Peter Vandenberghe.
Si noti che proviene da una pagina dedicata a Rachel Corrie.
Peter Vandenberghe's free Dutch version of Nâzim Hikmet's poem. It is reproduced from a page dedicated to Rachel Corrie.
Vrije nederlandse vertaling van Peter Vandenberghe.

EEN MEISJE

Ik ben het die aan de deuren klopt,
één voor één.
Ik kan niet verschijnen voor uw ogen,
de doden verschijnen niet voor de ogen.

Het is tien jaar geleden dat ik stierf
in Hirosima.
Ik ben een meisje van zeven jaar,
dode kinderen groeien niet meer.

Mijn haren ontvlamden het eerst,
mijn ogen branden en verschroeiden.
Ik werd heel vlug een handvol as,
ik waaide op in de wind.

Er is niets dat ik wens voor mezelf.
Geef me geen snoepjes,
een kind dat brand als een blad papier
kan zelf geen snoepjes eten

Oompje, tante ik klop aan uw deur voor
een woord van eer.
Moge de kinderen niet meer gedood worden,
zodat ze snoepjes kunnen eten.

inviata da Riccardo Venturi - 4/1/2006 - 00:57


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Lingua: Neerlandese

Ulteriore versione neerlandese (olandese/fiamminga) della poesia di Nâzim Hikmet, da Questa pagina
Alternative Dutch version of Nâzim Hikmet's poem, from This page

HET KLEINE MEISJE

Bij zo velen klopte ik aan,
wie weet, ook bij jou misschien.
Maar doden zijn onzichtbaar,
ik kan me niet laten zien,

Het is nu tien jaar geleden
dat ik in Hiroshima stierf.
Ik ben een meisje van zeven,
dode kinderen groeien niet.

Eerst vatte mijn haar vuur,
dan verbrandden mijn ogen.
Ik werd een handvol as
mijn bloed is vervlogen.

Ik vraag van jullie niets,
je hoeft iet te boeten.
Een kind dat verbrandde
kan niet eens meer snoepen.

Ik klop weer bij jullie aan:
geel me toch je woord van eer.
Laat de kinderen snoepen
en dood hen nooit meer, nooit meer.

inviata da Riccardo Venturi - 4/1/2006 - 01:03


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Lingua: Portoghese

Versione portoghese della poesia di Nâzim Hikmet, di Rui Caeiro (2000)
Versão portuguesa do poema de Nâzim Hikmet, por Rui Caeiro (2000)
Rui Caeiro's Portuguese version of Nâzim Hikmet's poem (2000)
Da/de/from Questa pagina/esta página/this page

A MENINA

Sou eu que bato às portas
às portas, umas após outras.
Sou invisível aos vossos olhos.
Os mortos são invisíveis.

Morta em Hiroxima
há mais de dez anos,
sou uma menina de sete anos.
As crianças mortas não crescem.

Primeiro arderam os meus cabelos,
também os olhos arderam, ficaram calcinados.
Num instante fiquei reduzida a um punhado de cinzas
que se espalharam ao vento.

No que diz respeito a mim,
nada vos imploro:
não podia comer, nem sequer bombons,
a criança que ardeu como papel.

Bato à vossa porta, tio, tia:
uma assinatura. Não matem as crianças
e deixem-nas também comer bombons.

inviata da Riccardo Venturi - 4/1/2006 - 01:10


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Lingua: Danese

La versione danese della poesia di Nâzim Hikmet.
Danish version of Nâzim Hikmet's poem

Erik Stinus.
Erik Stinus.


Translated 1955 into Danish by the late poet Erik Stinus (1934-2009). Music (1984?) by the Danish composer Herman D. Koppel. Published in Jordens sange, 2001. Recorded by Per Warming on the CD Jordens sange.

Per Warming.
Per Warming.
Tradotta in danese nel 1955 dallo scomparso poeta Erik Stinus (1934-2009). Musica (1984?) del compositore danese Herman D. Koppel. Pubblicata in Jordens sange ("canti della Terra"), 2001. Incisa da Per Warming nel CD Jordens sange. [Holger Terp]

DEN DØDE PIGE

Der står et barn foran din dør
står med en bøn til dig, til os
ved hver en dør, skønt ingen ser
den lille piges skygge dér.

At lege, synge, har jeg kendt,
og blive sulten, løbe hjem.
I Hiroshima blev jeg brændt,
en askehob var alt man fandt.

I håret først greb flammen fat,
fortæred så min hud, min mund.
Da sank jeg om, var stum, var træt.
Så hvidt der blev, så sort, så hedt.

Min sang blev brændt, og brændt mit kød.
Jeg leged i det lyse sand
da bomben faldt og smelted, sved
til aske alt, min drøm til død.

Jeg er et barn, jeg blev kun syv,
er stadig syv, for børn som dør
blir ikke ældre uden liv.
Nu leger vinden med mit støv.

Jeg spiser aldrig ris og brød,
kun én ting ber jeg om: at du
vil kæmpe imod krig og død,
så børn kan vokse op i fred.

inviata da Holger Terp og CCG/AWS Staff - 27/1/2010 - 21:25


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Lingua: Finlandese

Traduzione finlandese di Aira Sinervo
Finnish translation by Aira Sinervo
Fince çeviri: Aira Sinervo
Suomennos: Aira Sinervo

PIENI KUOLLUT LAPSI

Näin ovelta ovelle kierrän ja käyn,
käsi väsy ei kolkuttamasta.
Kun ovesi avaat, ei silmäsi näe
minua, kuollutta lasta.

On siitä jo vuosia kymmenen,
Hiroshimassa kotini mulla.
Kuus kesää kasvaa ehdin vain,
ei seitsemäs ehtinyt tulla.

Kävi humahdus, tukkani kärventyi,
kipu viilsi mun silmiäni.
Jalat piiriä juoksevat luhistui
tuhkaks' kesken leikkiäni.

En sinulta nukkea pyytää voi,
en turvaa sylissäsi.
On lapsen ruumiini tomua vain,
on katkennut elämäni.

Vaan silti mä ovelta ovelle käyn,
nuken sijasta pyyntö on mulla:
sinä lasten suojaksi nimesi suo,
he että saa aikuisiksi tulla.

inviata da Juha Rämö - 11/5/2015 - 12:39


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Lingua: Finlandese

Traduzione finlandese 2 / Finnish translation 2 / Fince çeviri 2 / Suomennos 2: Jarkko Aarniala & Mikko Perkoila

JÄÄN OVELLESI SEISOMAAN

Jään ovellesi seisomaan.
Kun saavun, et vain kuulla voi.
Kun kolkutan, et ketään nää.
Mä kuollut oon, mä kuollut oon.

Olin seitsemän, kun pommi tuo
toi Hiroshimaan kuoleman.
Olen seitsemän kuin silloinkin.
Ei lapset kasva kuoltuaan

Se liekki poltti hiukseni,
se poltti silmät sokaisten.
Jäi ruumiistani tomu vain,
niin lensin teitä tuulien.

En enää kaipaa riisiä,
en hedelmiä, leipääkään.
En itse mitään tarvitse,
kun kuollut oon, kun kuollut oon.

Vain pyydän: rauhan puolesta
tee tänään työtä, ihminen,
niin että lapset maailman
saa elää, kasvaa leikkien.

inviata da Juha Rämö - 13/5/2015 - 10:38


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Lingua: Scozzese

The Great Silkie Of Sule Skerrie
# Child 113




L'antichissima ballata scozzese nella classica interpretazione di Joan Baez (da Joan Baez Ballad Book, vol. I, 1969). Testo: The Oxford Book Of Ballads, edited by Sir Arthur Quiller-Couch ("Q"), 1910; a sua volta ripreso da: Proceedings of the Society of Antiquaries of Scotland, I (1852), 86. Joan Baez, nella sua versione, si allontana in alcuni punti dalla pronuncia scozzese e non canta la strofa indicata tra [parentesi quadre].

Molto del grande successo di questa canzone, oltre all'emozionante testo di Nâzim Hikmet tradotto da Pete Seeger e interpretato dai Byrds, è dovuto alla melodia assolutamente unica, rielaborata (ma con nessuna modifica sostanziale) da quella dell'antica ballata scozzese The Great Silkie of Sule Skerrie. La seguente presentazione fu da me preparata nel 1988 per un Sito sulle Child Ballads; la riprendo per l'occasione. [RV]

Nel folklore degli arcipelaghi all'estremo nord della Scozia, le Orcadi e le Ebridi, le foche hanno un ruolo importante, specialmente per quanto riguarda le numerose storie che hanno come protagonisti i silkies o "uomini-foca" (il termine stesso è un diminutivo del termine sile, sule [inglese seal "foca"]). I silkies sono delle creature fatate che usualmente abitano nelle profondità marine, ma che talvolta salgono in terraferma dopo essersi sbarazzate delle loro pelli di foca, assumendo sembianze umane. Così è anche il protagonista della nostra storia (Sule (o Shule) Skerry è un’isolotto delle Orcadi occidentali, il cui nome significa “Isolotto delle Foche”- Skerrie è connesso con un antico termine per “isola” che si ritrova ancora nello svedese skär-gård “arcipelago”, lett. “giardino di isole”), il cupo uomo-foca che, passando per un uomo normale, ha affidato suo figlio alla madre, una donna mortale o “nutrice terrestre” (eartly nourrice), e torna poi per riprenderselo (non senza pagare alla madre-balia una ricompensa). Molte famiglie delle isole scozzesi fanno risalire la loro origine agli uomini-foca e, a causa di un evidente tabù totemico, si rifiutano di mangiare carne di foca o di usarne il grasso. Malgrado il finale della ballata possa apparire un artificio letterario, gli abitanti delle Orcadi sono convinti che la profezia contenuta nella strofa di chiusura si avvererà, dato che i silkies si distinguono, tra le altre cose, per il loro potere di predire il futuro.

Il nostro testo proviene dai Proceedings of the Society of Antiquaries of Scotland, I (1852), 86. La ballata è cantata su due melodie, considerate tra le più belle conosciute. Alla versione raccolta alla fine del secolo scorso dal Fergusson (e riportata in Rambling Stretches in the Far North, 1883, p. 140) si adatta quella trascritta nelle isole Orcadi dal prof. Otto Andersson di Helsinki nel 1938 ed arrangiata da Francis Collinson (pubblicata in Budkavlen, XXVI [1947]); la melodia era stata raccolta dalla voce di John Sinclair, sull'isola di Flotta, e il prof. Andersson disse di non avere avuto la coscienza di trascrivere per la prima volta una melodia dopo secoli. Il nostro testo utilizza invece la melodia scritta nel 1954 dal prof. James (Jim) Waters, della Columbia University, che è senz'altro la più nota scelta e che fu scelta anche da Joan Baez per la sua interpretazione arrangiata (in The Joan Baez Ballad Book, I, intitolata semplicemente Silkie). Una versione francese della ballata è stata approntata e preparata dal gruppo bretone Tri Yann.

An earthly nourrice sits and sings,
And aye she sings, ‘Ba, lily wean!
Little ken I my bairn’s father,
Far less the land that he staps in.’

Then ane arose at her bed-fit,
An’ a grumly guest I’m sure was he:
‘Here am I, thy bairn’s father,
Although that I be not comèlie.

I am a man, upo’ the lan’,
An’ I am a silkie in the sea;
And when I’m far and far frae lan’,
My dwelling is in Sule Skerrie.’

[‘It was na weel,’ quo’ the maiden fair,
‘It was na weel, indeed,’ quo’ she,
‘That the Great Silkie of Sule Skerrie
Suld hae come and aught a bairn to me.’]

Now he has ta’en a purse of goud,
And he has pat it upo’ her knee,
Sayin’, ‘Gie to me my little young son,
An’ tak thee up thy nourrice-fee.

‘An’ it sall pass on a simmer’s day,
When the sin shines het on evera stane,
That I will tak my little young son,
An’ teach him for to swim the faem.*

‘An’ thu sall marry a proud gunner,
An’ a proud gunner I’m sure he’ll be,
An’ the very first schot that ere he schoots,
He’ll schoot baith my young son and me.’

*Var.: His lane.

inviata da Riccardo Venturi - 9/4/2009 - 22:21


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Lingua: Italiano

Versione italiana di Riccardo Venturi [1988]
Italian version by Riccardo Venturi [1988]

Sule Skerry.
Sule Skerry.

IL GRANDE UOMO-FOCA DI SULE SKERRY

Una donna mortale siede e canta
E sempre canta, Dormi, piccolo giglio!
Poco conosco il padre di mio figlio,
Né so la terra da dove viene.

E allora venne uno ai piedi del letto
E un ospite terribile, son sicuro fosse:
"Sono io il padre di tuo figlio,
Anche se non posso piacerti molto.

Qua sulla terra io sono un uomo,
Ma nel mare, sono un uomo-foca;
E quando da terra sono lontano
La mia dimora è l'Isola delle Foche."

"Non è buona cosa", disse la ragazza,
"Non è davvero bene", lei disse,
"Che l’ Uomo-foca di Sule Skerry
Sia venuto a prender mio figlio."

E ora ha preso una borsa d'oro
E gliela ha messa sulle ginocchia
E dice, "Ora dammi il mio bambino,
E questo è per averlo allattato.

E accadrà in un giorno d'estate,
Quando il sole splenderà su ogni scoglio
Che verrò a prendere mio figlio
E gli insegnerò a nuotare nella spuma del mare.*

Tu sposerai un valente cannoniere,
Son sicuro che sarà valente;
Ed il primo colpo che lui sparerà
Ucciderà sia mio figlio, che me."

*Var.: "Per la sua strada"

inviata da CCG/AWS Staff - 10/4/2009 - 00:21


THE MISUNDERSTOOD - I UNSEEN


This poem is also put to music (same lyrics but different music) by the Misunderstood (one of the great lost bands of the sixties) in 1966.
It's titled "I Unseen".
Free Download
(Kees Gijsberts)

La poesia è stata messa in musica (con le stesse parole ma melodia differenta) da The Misunderstood (uno dei grandi gruppi dimenticati degli anni '60) nel 1966.
È intitolata "I Unseen"
Scaricamento libero

6/8/2005 - 09:20


LA CONDANNA DELLA BOMBA ATOMICA NELLE PAROLE DEGLI INTELLETTUALI


Il solo vero problema di tutti i tempi si trova nel cuore e nei pensieri degli uomini. Non si tratta di un problema fisico, ma di un problema morale.
È più facile modificare la composizione del plutonio piuttosto che lo spirito malvagio di un individuo. Non è la potenza di una bomba atomica che ci spaventa, ma la potenza della malvagità del cuore umano, la sua forza d'esplosione per il male.
(Albert Einstein, 1948)

La gente si abitua a tutto con una facilità spaventosa. Quando hanno sganciato l'atomica su Hiroshimea e Nagasaki, il mondo intero era scioccato dal terrore e si diceva: "È mostruoso". Ebbene, adesso, la bomba atomica rientra nell'insieme delle armi tattiche e non guasta il sonno a nessuno. Quasi fosse qualcosa di demodé, di commovente, come l'arco e le frecce
(Bertrand Russell)

Davanti alle prospettive terrificanti che si aprono all'umanità, ci accorgiamo ancora di più che la pace è la sola battaglia che meriti di essere combattuta.
Non è più una supplica, ma un ordine che deve salire dai popoli ai governi; l'ordine di decidere definitivamente tra l'inferno e la ragione
(Albert Camus, 8 agosto 1945)

Il giorno in cui sganciarono la bomba era ero in un campeggio estivo, scappai in un bosco e rimasi da solo per due ore. Non ne avrei mai potuto parlare con nessuno e non avrei potuto comprendere la reazione di nessuno. Mi sentivo completamente isolato.
(Noam Chomsky)

Una volta ci dicevano che l'aeroplano aveva "abolito le frontiere"; in realtà è proprio da quando l'aereo è diventato una autentica arma che le frontiere sono diventate davvero invalicabili. Dalla radio, un tempo, ci si aspettava che favorisse la comprensione internazionale e la cooperazione: si è trasformata invece in un mezzo per isolare una nazione dall'altra. La bomba atomica potrebbe completare questo processo di sfruttamente ed espropriazione delle classi e dei popoli di tutto il loro potere di rivolta
(George Orwell)

Uomini severi, in doppiopoetto, eleganti, che salgono e scendono dagli aeroplani... E uomini umili, vestiti di stracci o di abiti fatti in serie, miseri, che vanno e vengono per strade rigurgitanti e squallide... È da questa divisione che nasce la tragedia e la morte. La bomba atomica, col suo funebre cappuccio che si allarga in cieli apocalittici, è il futuro di questa divisione.
(Pier Paolo Pasolini)

5/8/2005 - 20:14


Ecco le foto segrete di Hiroshima
Chi le scattò resta senza nome

di VITTORIO ZUCCONI
da Repubblica on line

In quel film dell'orrore senza fine che porta il nome di Hiroshima, altri spettri escono dalla grotta dove furono rinchiusi 63 anni or sono, e vengono a chiederci di essere ricordati. Non i corpi, caduti nell'istante del sole artificiale, ma le loro immagini, dieci scatti inediti impressi su un rullino fotografico, probabilmente da qualcuno di loro, prima di raggiungerli nel mucchio di cadaveri.

Sono dieci immagini mai viste finora eppure viste 250 mila volte, quanti furono, migliaio più migliaio meno perché nessuno conoscerà mai il totale, le vittime di "Little Boy", della prima bomba a fissione nucleare esplosa alle 8 e 15 del mattino del 6 agosto 1945. Fotografie che un soldato americano, Samuel Capp, trovò per caso frugando tra i morti e ispezionando una caverna dopo l'occupazione, e che tenne per sé, dopo averle sviluppate e viste, per oltre 50 anni, prima di rassegnarsi a donarle al fondo intitolato al presidente Herbert Hoover presso l'Università di Stanford, con l'impegno di non renderle pubbliche fino al 2008.
Tutte le immagini dei massacri, dei genocidi, delle fosse comuni sono oscenamente simili, perché i caduti, nelle guerre, giuste o sbagliate che siano, si somigliano sempre tutti. Guardare queste dieci foto, ritrovate e diffuse da un ricercatore della University di California a Merced, il professor Sean Malloy, per un libro sulla morte atomica, significa rivedere istantaneamente le cataste di cadaveri a Mauthausen, le fosse comuni in Ucraina, gli ebrei della rivolta di Varsavia, i bambini di Halabja, il villaggio gassato da Saddam Hussein, i soldati iracheni che vidi sollevati dalle ruspe americane e inglesi lungo la "autostrada della morte" fra Kuweit City e Basra nel febbraio del 1991 e poi ricoperti dalla sabbia, senza guardare troppo per il sottile chi fosse davvero morto o morente.


Quelle figure ritratte nelle nuove istantanee non sono più giapponesi o russi, asiatici o caucasici, bianchi, neri o gialli, nel gonfiore dei gas della putrefazione che sfigura volti e membra dopo poche ore, neppure maschi o femmine, vecchi o giovani. Soltanto i bambini si riconoscono. Sono cose, oggetti, statistiche, bilanci, cifre per gli storici che hanno catalogato i 50 milioni di morti - come l'intera popolazione italiana di oggi - divorati dal più grande massacro indiscriminato che mai l'umanità avesse inflitto a sé stessa, i 190 mila civili olandesi, i 170 mila civili italiani, i 400 mila francesi, i 290 mila militari americani, i sette milioni di russi, i corpi calcinati di Dresda o di Coventry. E il milione e duecentomila civili giapponesi arsi vivi o vaporizzati nei bombardamenti incendiari di Tokyo, ancor più micidiali delle due armi atomiche, a Hiroshima, a Nagasaki.

Di fronte a queste fotografie si può invocare il diritto della propria causa, si possono e si devono ricordare le responsabilità, ma nessun combattente può mai pretendere l'assoluzione preventiva dalle atrocità implicite in tutte le guerre, come sta dimostrando l'Iraq. Se il generale William "Tecumseh" Sherman, il condottiero nordista che mise spietatamente a ferro e fuoco il Sud e la città di Atlanta nella propria marcia vittoriosa, avesse potuto vedere queste nuove foto dall'abisso, avrebbe ripetuto il proprio amaro commento,: "War is hell", la guerra è inferno, e non c'è modo per addolcirla.

Non c'è meccanismo ideologico o di propaganda che possa ingentilire e infiocchettare queste fascine di corpi che furono esseri umani.
Ogni guerra, ogni genocidio, ogni olocausto ha sempre almeno un superstite, un testimone, un documento che sopravvive e che torna a raccontarceli, come queste foto. Da Hiroshima, dove oggi si può passeggiare nella quiete soffocante del "Parco della Pace", fra il museo dei reperti e delle memorie, il ponte a "T" sul fiume che servì da bersaglio al bombardiere della "Enola Gay" e la scultura astratta della cupole ischeletrita della Camera di Commercio, la processione di ricordi continuerà.

Chissà quanti dei reperti ancora viventi che portano sul proprio corpo i "cheloidi", le cicatrici mostruose delle ustioni nucleari, come la bambina sessantenne che mi accompagnò per le strade che aveva percorso quella mattina d'agosto, salvandosi soltanto perché aveva perduto il tram, conservano segreti che ancora non vogliono raccontare e forse non racconteranno mai. Perché gli "hibakusha", i colpiti dalle ustioni nucleari, come sono clinicamente chiamati, sono prima giapponesi che vittime e sentono dunque la vergogna, il pudore di essere vittime.

Il coraggio di vergognarsi per le colpe altrui, il pudore difficile del male subìto che questa fotografie squarciano con la loro innocente oscenità, sono ciò che spinse un fotografo anonimo, quasi certamente un cittadino qualsiasi e un moribondo lui stesso, a scattare queste istantanee per noi. Che portò un reporter giapponese professionista, Yosuke Yamahata, a fiondarsi nel braciere ancora caldo di Hiroshima il 10 agosto '45, appena quattro giorni dopo l'esplosione, per raccogliere le prime immagini, prima che le ancora efficientissime autorità imperiali e poi i bulldozer americani rimuovessero i 130 mila morti istantaneamente o dopo qualche ora di sofferenza squassati dai conati, dal sangue che fuoriusciva dalle loro orecchie.

Pur sapendo, il fotografo, che avrebbe pagato con un cancro da radiazioni che infatti lo uccise, la testimonianza.

Sospetto, per quel poco che so del Giappone, che se quelle fascine di corpi fissate sulle nuove foto emerse da Hiroshima potessero miracolosamente alzarsi e parlare, ci chiederebbero scusa per l'imbarazzo che suscitano in noi che li guardiamo. "Suimasèn, suimasèn", scusate, perdonate, come le madri che si lanciavano singhiozzando con i figli stretti in braccio dallo scoglio dell'isola di Saipan, per sfuggire all'umiliazione della cattura e farsi perdonale dall'imperatore.

Come gli ufficiali rimasti senza munizioni nella caverne di Okinawa e costretti dal "bushido", dal codice d'onore dei samurai, al suicidio.

In queste ore, dopo la riesumazione della nuova processione di spettri 63 anni dopo, sulla rete, sui blog americani che le hanno diffuse ribolle il fiume della la rissa fra chi rivendica l'inevitabilità strategica delle due bombe atomiche sganciate per evitare un'invasione di 500 mila possibili caduti americani e chi grida alla odiosa vendetta contro una nazione ormai disfatta, ma sempre odiata e aliena, come mai furono odiati o alieni gli altri nemici del Patto Tripartito, gli italiani di Mussolini e i tedeschi di Hitler.

La solita, stucchevole rimasticazione di processi revisionisti, di fronte a morti che chiedono soltanto di essere ricordati e scusati per essere morti. E noi li perdoniamo, se loro perdonano noi.
In quel film dell'orrore senza fine che porta il nome di Hiroshima, altri spettri escono dalla grotta dove furono rinchiusi 63 anni or sono, e vengono a chiederci di essere ricordati. Non i corpi, caduti nell'istante del sole artificiale, ma le loro immagini, dieci scatti inediti impressi su un rullino fotografico, probabilmente da qualcuno di loro, prima di raggiungerli nel mucchio di cadaveri.

Sono dieci immagini mai viste finora eppure viste 250 mila volte, quanti furono, migliaio più migliaio meno perché nessuno conoscerà mai il totale, le vittime di "Little Boy", della prima bomba a fissione nucleare esplosa alle 8 e 15 del mattino del 6 agosto 1945. Fotografie che un soldato americano, Samuel Capp, trovò per caso frugando tra i morti e ispezionando una caverna dopo l'occupazione, e che tenne per sé, dopo averle sviluppate e viste, per oltre 50 anni, prima di rassegnarsi a donarle al fondo intitolato al presidente Herbert Hoover presso l'Università di Stanford, con l'impegno di non renderle pubbliche fino al 2008.
Tutte le immagini dei massacri, dei genocidi, delle fosse comuni sono oscenamente simili, perché i caduti, nelle guerre, giuste o sbagliate che siano, si somigliano sempre tutti. Guardare queste dieci foto, ritrovate e diffuse da un ricercatore della University di California a Merced, il professor Sean Malloy, per un libro sulla morte atomica, significa rivedere istantaneamente le cataste di cadaveri a Mauthausen, le fosse comuni in Ucraina, gli ebrei della rivolta di Varsavia, i bambini di Halabja, il villaggio gassato da Saddam Hussein, i soldati iracheni che vidi sollevati dalle ruspe americane e inglesi lungo la "autostrada della morte" fra Kuweit City e Basra nel febbraio del 1991 e poi ricoperti dalla sabbia, senza guardare troppo per il sottile chi fosse davvero morto o morente.

Quelle figure ritratte nelle nuove istantanee non sono più giapponesi o russi, asiatici o caucasici, bianchi, neri o gialli, nel gonfiore dei gas della putrefazione che sfigura volti e membra dopo poche ore, neppure maschi o femmine, vecchi o giovani. Soltanto i bambini si riconoscono. Sono cose, oggetti, statistiche, bilanci, cifre per gli storici che hanno catalogato i 50 milioni di morti - come l'intera popolazione italiana di oggi - divorati dal più grande massacro indiscriminato che mai l'umanità avesse inflitto a sé stessa, i 190 mila civili olandesi, i 170 mila civili italiani, i 400 mila francesi, i 290 mila militari americani, i sette milioni di russi, i corpi calcinati di Dresda o di Coventry. E il milione e duecentomila civili giapponesi arsi vivi o vaporizzati nei bombardamenti incendiari di Tokyo, ancor più micidiali delle due armi atomiche, a Hiroshima, a Nagasaki.

Di fronte a queste fotografie si può invocare il diritto della propria causa, si possono e si devono ricordare le responsabilità, ma nessun combattente può mai pretendere l'assoluzione preventiva dalle atrocità implicite in tutte le guerre, come sta dimostrando l'Iraq. Se il generale William "Tecumseh" Sherman, il condottiero nordista che mise spietatamente a ferro e fuoco il Sud e la città di Atlanta nella propria marcia vittoriosa, avesse potuto vedere queste nuove foto dall'abisso, avrebbe ripetuto il proprio amaro commento,: "War is hell", la guerra è inferno, e non c'è modo per addolcirla.

Non c'è meccanismo ideologico o di propaganda che possa ingentilire e infiocchettare queste fascine di corpi che furono esseri umani.
Ogni guerra, ogni genocidio, ogni olocausto ha sempre almeno un superstite, un testimone, un documento che sopravvive e che torna a raccontarceli, come queste foto. Da Hiroshima, dove oggi si può passeggiare nella quiete soffocante del "Parco della Pace", fra il museo dei reperti e delle memorie, il ponte a "T" sul fiume che servì da bersaglio al bombardiere della "Enola Gay" e la scultura astratta della cupole ischeletrita della Camera di Commercio, la processione di ricordi continuerà.

Chissà quanti dei reperti ancora viventi che portano sul proprio corpo i "cheloidi", le cicatrici mostruose delle ustioni nucleari, come la bambina sessantenne che mi accompagnò per le strade che aveva percorso quella mattina d'agosto, salvandosi soltanto perché aveva perduto il tram, conservano segreti che ancora non vogliono raccontare e forse non racconteranno mai. Perché gli "hibakusha", i colpiti dalle ustioni nucleari, come sono clinicamente chiamati, sono prima giapponesi che vittime e sentono dunque la vergogna, il pudore di essere vittime.

Il coraggio di vergognarsi per le colpe altrui, il pudore difficile del male subìto che questa fotografie squarciano con la loro innocente oscenità, sono ciò che spinse un fotografo anonimo, quasi certamente un cittadino qualsiasi e un moribondo lui stesso, a scattare queste istantanee per noi. Che portò un reporter giapponese professionista, Yosuke Yamahata, a fiondarsi nel braciere ancora caldo di Hiroshima il 10 agosto '45, appena quattro giorni dopo l'esplosione, per raccogliere le prime immagini, prima che le ancora efficientissime autorità imperiali e poi i bulldozer americani rimuovessero i 130 mila morti istantaneamente o dopo qualche ora di sofferenza squassati dai conati, dal sangue che fuoriusciva dalle loro orecchie.

Pur sapendo, il fotografo, che avrebbe pagato con un cancro da radiazioni che infatti lo uccise, la testimonianza.

Sospetto, per quel poco che so del Giappone, che se quelle fascine di corpi fissate sulle nuove foto emerse da Hiroshima potessero miracolosamente alzarsi e parlare, ci chiederebbero scusa per l'imbarazzo che suscitano in noi che li guardiamo. "Suimasèn, suimasèn", scusate, perdonate, come le madri che si lanciavano singhiozzando con i figli stretti in braccio dallo scoglio dell'isola di Saipan, per sfuggire all'umiliazione della cattura e farsi perdonale dall'imperatore.

Come gli ufficiali rimasti senza munizioni nella caverne di Okinawa e costretti dal "bushido", dal codice d'onore dei samurai, al suicidio.

In queste ore, dopo la riesumazione della nuova processione di spettri 63 anni dopo, sulla rete, sui blog americani che le hanno diffuse ribolle il fiume della la rissa fra chi rivendica l'inevitabilità strategica delle due bombe atomiche sganciate per evitare un'invasione di 500 mila possibili caduti americani e chi grida alla odiosa vendetta contro una nazione ormai disfatta, ma sempre odiata e aliena, come mai furono odiati o alieni gli altri nemici del Patto Tripartito, gli italiani di Mussolini e i tedeschi di Hitler.

La solita, stucchevole rimasticazione di processi revisionisti, di fronte a morti che chiedono soltanto di essere ricordati e scusati per essere morti. E noi li perdoniamo, se loro perdonano noi.

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7/5/2008 - 09:04


Chi, sia pure sommariamente (come noi: tanto per mettere le mani avanti), conosce la storia dell'atomica, della bomba atomica, è in grado di fare questa semplice e penosa constatazione: che si comportarono liberamente, cioè da uomini liberi, gli scienziati che per condizioni oggettive non lo erano; e si comportarono da schiavi, e furono schiavi, coloro che invece godevano di una oggettiva condizione di libertà. Furono liberi coloro che non la fecero. Schiavi coloro che la fecero. E non per il fatto che rispettivamente non la fecero o la fecero - il che verrebbe a limitare la questione alle possibilità pratiche di farla che quelli non avevano e questi invece avevano - ma precipuamente perché gli schiavi ne ebbero preoccupazione, paura, angoscia; mentre i liberi senza alcuna remora, e persino con punte di allegria, la proposero, vi lavorarono, la misero a punto e, senza porre condizioni o chiedere impegni (la cui più che possibile inosservanza avrebbe almeno attenuato la loro responsabilità), la consegnarono ai politici e ai militari. E che gli schiavi l'avrebbero consegnata a Hitler, a un dittatore di fredda e atroce follia, mentre i liberi la consegnarono a Truman, uomo di «senso comune» che rappresentava il «senso comune» della democrazia americana, non fa differenza: dal momento che Hitler avrebbe deciso esattamente come Truman decise, e cioè di fare esplodere le bombe disponibili su città accuratamente, «scientificamente» scelte fra quelle raggiungibili di un paese nemico; città della cui totale distruzione si era potuto far calcolo (tra le «raccomandazioni» degli scienziati: che l'obiettivo fosse una zona del raggio di un miglio e di dense costruzioni; che ci fosse una percentuale alta di edifici in legno; che non avesse fino a quel momento subito bombardamenti, in modo da poter accertare con la massima precisione gli effetti di quello che sarebbe stato l'unico e il definitivo...).

La tessera identificava di Oppenheimer a Los Alamos
La tessera identificava di Oppenheimer a Los Alamos
La struttura organizzativa del « Manhattan Project» e il luogo in cui fu realizzato per noi si sfaccettano in immagini di segregazione e di schiavitù, in analogia ai campi di annientamento hitleriani. Quando si maneggia, anche se destinata ad altri, la morte - come la si maneggiava a Los Alamos - si è dalla parte della morte e nella morte. A Los Alamos si è insomma ricreato quello appunto che si credeva di combattere. Il rapporto tra il generale Groves, amministratore con pieni poteri del «Manhattan Project», e il fisico Oppenheimer, direttore dei laboratori atomici, è stato di fatto il rapporto che frequentemente si istituiva nei campi nazisti tra qualcuno dei prigionieri e i comandanti. Per questi prigionieri, il «collaborazionismo» era un modo diverso di esser vittime, rispetto alle altre vittime. Per gli aguzzini, un modo diverso di essere aguzzini. Oppenheimer è infatti uscito da Los Alamos annientato quanto un prigioniero «collaborazionista» dal campo di sterminio di Hitler.
Il suo dramma - che non ci commuove affatto, a cui soltanto riconosciamo un valore di parabola, di lezione, di ammonizione per gli altri uomini di scienza - è propriamente il dramma, vissuto a livello individuale, soggettivo, di un nefasto «collaborazionismo» che molte migliaia di persone hanno vissuto (nel senso che ne sono morte) oggettivamente, in quanto ne sono stati oggetto, bersaglio. E speriamo che altre e più vaste vendemmie di morte non vengano da questo, non ancora infranto, «collaborazionismo».

(Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana, 1975)

4/10/2009 - 11:38


1 poesia davvero toccante che lascerà 1 scia nella mente di tutti quelli che la leggeranno.......
1 ricordo x tutte quelle persone, soprattutto x quei bambini morti allora.....
li conserveremo nella nostra memoria, xkè la memoria è futuro..... come immaginare 1 vita senza bimbi??????????
x questo invito tutti a leggere questa poesia e a sperare insieme a me ke tutto quel dolore non avvenga più.......

roberta fornarino - 25/1/2010 - 18:56


I wonder why this song has been credited to Pete Seeger and not to Nâzim Hikmet in the first place. Surely, there's no doubt that Pete Seeger, Joan Baez, Paul Robeson and all the artists who have recorded this song in whatever language or version have paid homage to Hikmet and made »Kız Çocuğu« known to millions of listeners, but I still think that Hikmet's original poem should have been the very foundation of this page.

Here's my homage to Nâzim Hikmet, an audio link to the song performed in Turkish by Sevingül Bahadır:



And another link to »I Come and Stand at Every Door« performed by Elizabeth Fraser on the 1999 album »Blood« of This Mortal Coil:

Juha Rämö - 11/5/2015 - 12:37


Dear Juha, the song has been credited to Pete Seeger because it is a song by Pete Seeger, originally sung in an English translation. In this site, we are not so willing to credit songs to poets if their poems are sung in form of translations in any language. Of course, the original poem is always included and the poet clearly stated; but, in our opinion, a translated song can never be credited to the poet.

Riccardo Venturi - 11/5/2015 - 13:10


I apologize for my wrong choice of words. Of course, Pete Seeger's song is Pete Seeger's song and can only be credited to Pete Seeger. What I meant is that this page should have been dedicated to Hikmet's poem whithout which there wouldn't be any translations nor any of these great songs. To put it in a simple way: »Kız Çocuğu« to my mind is the mother and »I Come and Stand at Every Door«, »Pieni kuollut lapsi«, »The Little Dead Girl«, etc. are her children. And the father, without the slightest doubt, is »The Great Silkie Of Sule Skerrie«.

11/5/2015 - 14:26


Dear Juha, that's just why this page, as you certainly have noticed, is divided into two sections, the "song section" and the "poem section". Of course, the two sections are interdependent. Moreover, this page is also one of the oldest in our site (2003) and has a long history here, just to say and explain that its present form is the result of stratification. To tell you the truth, we had no fixed criteria at that time: that's why we have a couple of pages directly credited to Nâzim Hikmet (both in Turkish, of course). It's complicated, I know, and often uncongruous. Insertion criteria are no sweet slumber, but sometimes a true nightmare...

Just one question now: I see the Finnish translation of Hikmet's poem is by Aira Sinervo. Has he/she anything to do with Elvi Sinervo, or is Sinervo such a common family name in Finland...? There's an article on Aira Sinervo in the Finnish Wikipedia, which I have linked, but, sadly enough, it would take me too much time to read a whole article in Finnish...

Finally, special thanks for calling "The Great Silkie of Sule Skerrie" the father of all the stuff in this pot-pourri page. As a scholar in the field of European traditional balladry, I'm very fond of everything concerning old ballads :-P Just to add water to the sea: is there any Finnish translation of "The Great Silkie of Sule Skerrie"? I'm asking you this because the hauting tune to the song was discovered 1938 in the Orkney islands by a Finnish scholar, prof. Otto Andersson of Helsinki. So, if "Silkie" is the father, a Finn might be called the grandfather...there would have been no ballad and no peace song without prof. Andersson.

Riccardo Venturi - 11/5/2015 - 15:30


As far as I know, "Silkie" has not been translated into Finnish unless by someone of the Finfolk.

Aira Sinervo was the younger sister of Elvi Sinervo. One of these days, I will post a song written by her.

Juha Rämö - 11/5/2015 - 16:43

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